La comunione legale de residuo costituisce la comunione dei beni che si viene a formare con lo scioglimento del regime patrimoniale ex artt. 177 e ss. c.c. intercorrente tra i coniugi. Nello specifico, essa costituisce la comunione residuale e differita dei beni non ancora consumati che rientravano originariamente nell’assetto patrimoniale intercorrente tra i coniugi, che viene sciolto, determinando la comproprietà dei beni al 50% in capo a ciascuna delle due parti coinvolte. L’istituto in analisi risponde a esigenze differenti e contrapposte, rilevabili a livello costituzionale: da una parte la tutela del coniuge debole e il principio di solidarietà coniugale ex art. 29 Cost.; dall’altra la libertà di autodeterminazione, gestione e remunerazione del lavoro del coniuge precettore, ex artt. 35, 41 e 42 Cost.
Nel 2022 le Sezioni Unite della Corte di cassazione si sono pronunciate in merito al tema, focalizzandosi sul caso relativo all’impresa familiare riconducibile ad uno solo dei due coniugi. Il punto cruciale su cui si sono focalizzate le Sezioni Unite, riguardava l’inquadramento della natura del diritto in capo al coniuge non titolare dell’impresa. Infatti, la questione ha interessato per lungo tempo tanto la dottrina quanto la giurisprudenza, che negli anni hanno rilevato argomentazioni differenti in relazione alla possibilità di identificare tale diritto come diritto di credito o diritto reale. Gli ermellini, a seguito di una lunga disamina dei due diversi orientamenti, hanno statuito che il diritto de quo sia da ritenersi come diritto di credito pari al 50% del valore dell’azienda come complesso organizzato di beni, determinato al netto della cessazione del regime patrimoniale legale ed al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data. Accogliendo la natura obbligatoria del diritto in capo al coniuge, nella pronuncia vengono richiamate delle argomentazioni già precedentemente spese dalla giurisprudenza in materia. In particolare è bene osservare la ratio stessa cha fa da sfondo all’istituto, che si confà a quei principi costituzionali sopra richiamati, preposti alla tutela del coniuge debole ma anche alla garanzia di autodeterminazione e gestione in capo all’altro. In tal senso, allora, se non si identificasse il diritto de quo come diritto di credito, verrebbe disatteso non solo l’interesse del coniuge non imprenditore di una legittima aspettativa di incremento di valore dei beni, ma anche l’interesse del coniuge imprenditore di operare liberamente nell’esercizio della propria attività (così Cass. n. 7060/1986 e Cass. n. 4533/1997). Inoltre, inquadrare tale rapporto giuridico nell’ambito dei diritti reali, potrebbe creare problemi rilevanti nel rapporto con i terzi. Infatti, dal momento che la comunione de residuo accede non solo a somme di denaro, ma anche a beni mobili e immobili, l’esistenza di una situazione di contitolarità reale potrebbe non essere conosciuta ai terzi, che potrebbero non essere edotti circa le ragioni che determinano l’assoggettamento a comunione di beni, da cui i beni stessi sarebbero apparentemente sottratti. Ancora, sempre richiamando i principi costituzionali che fanno da sfondo alla disciplina de quo, le Sezioni Unite ritengono che il regime di comunione a scapito di quello applicato ai rapporti obbligatori, sarebbe in contrasto con il principio solidaristico che garantisce a ciascun coniuge la libera disponibilità dei frutti e dei proventi con la necessità di assicurare ad entrambi la partecipazione, sia pure differita, alla ricchezza prodotta durante la convivenza familiare. Infatti, procedono gli ermellini, “sarebbe problematico limitare, nella fase successiva allo scioglimento della comunione legale, con l’insorgenza di un vincolo di natura reale, quella libertà di godimento e di disposizione sui frutti e proventi personali assicurata al coniuge percettore sino a quel momento”.